Giornata Mondiale dell’Alzheimer. SIN: puntare su strategie terapeutiche preventive
Nel mondo, questa patologia colpisce circa 40 milioni di persone e solo in Italia vi sono circa un milione di casi, per la maggior parte oltre i 60 anni. Oltre gli 80 anni ne è affetto un anziano su 4. Questi numeri sono destinati a crescere progressivamente per il progressivo aumento della durata della vita, soprattutto nei paesi in via di sviluppo: si stima un raddoppio dei casi ogni 20 anni.
La Malattia di Alzheimer, la più comune forma di demenza, rappresenta una delle sfide sanitarie più grandi del nostro secolo. Viene definita dal G8 come una priorità, con l’ambizione di trovare una cura entro il 2025. Proprio questo importante obiettivo è al centro della Giornata Mondiale della Malattia di Alzheimer che si celebra oggi, 21 settembre 2017, e rappresenta uno degli impegni prioritari della Società Italiana di Neurologia.
Nei pazienti affetti da Alzheimer le cellule cerebrali subiscono un processo degenerativo che le colpisce in maniera progressiva e che porta inizialmente a sintomi quali deficit di memoria, soprattutto per fatti recenti, e successivamente a disturbi del linguaggio, perdita di orientamento spaziale e temporale e progressiva perdita di autonomia che definiamo come “demenza”.
A tali deficit spesso si associano problemi psicologici e comportamentali, come depressione, incontinenza emotiva, agitazione, vagabondaggio, che rendono necessario un costante accudimento del paziente, con un grosso peso per i familiari.
“Dopo il fallimento delle terapie attuate nella fase di demenza conclamata – dichiara il professor Carlo Ferrarese, Direttore Scientifico del Centro di Neuroscienze di Milano, Università di Milano-Bicocca, Direttore della Clinica Neurologica, Ospedale San Gerardo di Monza -, le sperimentazioni cliniche attuali sono rivolte alla prevenzione della malattia. Questo è oggi possibile perché sono da poco disponibili nuove tecniche che permettono di determinare le alterazioni di una proteina ritenuta la prima causa di malattia, prima che questa si manifesti clinicamente. Da vari anni è noto infatti che alla base della malattia vi è l’accumulo progressivo nel cervello della proteina, chiamata beta-amiloide, che distrugge le cellule nervose ed i loro collegamenti”.
“Oggi– prosegue il professor Ferrarese – sappiamo che la beta amiloide inizia ad accumularsi nel cervello anche decenni prima delle manifestazioni cliniche della malattia, grazie ad una tecnica che consente di dimostrarne l’accumulo nel cervello, mediante la Positron Emission Tomography (PET), con la somministrazione di un tracciante che lega tale proteina. Analogamente è possibile analizzare i livelli di beta-amiloide nel liquido cerebrospinale, mediante una puntura lombare”.
Queste tecniche permettono di stabilire un rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer prima della comparsa dei deficit cognitivi e rendono quindi fattibile l’avvio di strategie terapeutiche preventive. Queste ultime sono basate su molecole che determinano una riduzione della produzione di beta-amiloide, con farmaci che bloccano gli enzimi che la producono (beta-secretasi) o, in alternativa, con anticorpi capaci addirittura di determinare la progressiva scomparsa di beta-amiloide già presente nel tessuto cerebrale. Questi anticorpi, prodotti in laboratorio e somministrati sottocute o endovena, sono in grado di penetrare in parte nel cervello e rimuovere la proteina, in parte di facilitare il passaggio della proteina dal cervello al sangue, con successiva eliminazione.
Queste terapie sono attualmente in fase avanzata di sperimentazione in tutto il mondo, su migliaia di pazienti nelle fasi iniziali di malattia o addirittura in soggetti sani che hanno la positività dei marcatori biologici (PET o liquorali). La speranza è di modificare il decorso della malattia, prevenendone l’esordio, dato che intervenire con tali molecole nella fase di demenza conclamata si è dimostrato inefficace.