Infarto miocardico acuto. L’intervista al cardiologo Furio Colivicchi (ANMCO)

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L’infarto acuto del miocardio (IMA) è una delle patologie cardiovascolari più gravi e di complessa gestione, un problema cogente di sanità pubblica. Ci descrive con dati aggiornati, l’epidemiologia in Italia di questa malattia riguardo a incidenza, ricoveri ospedalieri e mortalità, anche rispetto al genere?

“Ogni anno in Italia – risponde Furio Colivicchi, Past President dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri – si registrano da 130.000 a 150.000 nuovi casi di infarto miocardico acuto: oltre 25.000 pazienti muoiono prima di arrivare al ricovero. Negli ospedali, secondo Agenas-Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali, nel 2022 sono state ricoverate circa 110.000 persone con questa diagnosi.

L’8% di questi pazienti muore entro 30 giorni dalla dimissione dall’ospedale. E circa l’8-10% muore entro un anno. Quindi, complessivamente, dal 16 al 20% delle persone che sopravvivono a un infarto muore entro 12 mesi dal ricovero ospedaliero. Una percentuale molto elevata.

Grazie alle tecniche di rivascolarizzazione siamo riusciti a migliorare il dato della mortalità entro i 30 giorni, che in passato superava il 15%. La mortalità fuori ospedale, invece, non è migliorata, perché i pazienti non vengono seguiti in modo adeguato sul territorio e questo porta a una interruzione delle terapie e della riabilitazione cardiologica”.

Qual è il percorso clinico ideale per la presa in carico e la gestione dei pazienti con Infarto Miocardico Acuto? Ci sono margini di miglioramento?

“Dobbiamo distinguere due elementi: il primo, legato all’arrivo del paziente con infarto in ospedale, il secondo, legato a quanto accade dopo la dimissione. In genere, gli ospedali italiani sono molto ben attrezzati per la gestione della fase immediata di acuzie. In tutti gli ospedali italiani si è organizzata una rete cardiologica per l’infarto acuto, malattia che è strettamente legata al tempo d’intervento, con un miglioramento della prognosi: il paziente viene accolto, subito trasferito nella sala di emodinamica e sottoposto immediatamente ad angioplastica, procedura che ha dimezzato la mortalità negli ultimi 10 anni. Il problema vero è il ‘dopo’, cioè la gestione di tutte le condizioni cliniche (diabete, ipertensione, ipercolesterolemia per esempio) che sono state la causa più o meno remota dell’infarto ma che necessitano di essere trattate nel tempo, affinché tutti i risultati ottenuti durante il ricovero vengano mantenuti.

Su questo terreno siamo più deboli: il paziente dovrebbe entrare in un percorso diagnostico-terapeutico assistenziale di medio-lungo periodo tale da garantire l’aderenza alla cosiddetta prevenzione secondaria, finalizzata ad evitare il ricorrere di ulteriori eventi ischemici e la progressione della malattia. Purtroppo, a livello di strutture territoriali il follow up di questi pazienti è fragile e frammentato. Gli ospedali non hanno le risorse umane e organizzative per seguire tutti i pazienti nel post infarto: se consideriamo che in un ospedale di medio volume si ricoverano in media 500-600 pazienti con infarto all’anno, di questi solo i più gravi potranno continuare ad essere seguiti per due-tre mesi. Successivamente, dovranno transitare verso un’assistenza ‘territoriale’, che nella maggior parte delle Regioni italiane non è strutturata ed è molto frammentata. L’auspicio è che tale situazione possa migliorare a fronte dei fondi messi a disposizione del PNRR e del futuro nuovo Piano Sanitario Nazionale”.

La mortalità durante il ricovero e nel post infarto è un problema spinoso per i cardiologi. Ce ne vuole parlare? Cosa è stato fatto in questi anni per migliorare questo indicatore, dentro l’ospedale e fuori, e di conseguenza migliorare la prognosi di questi pazienti?

“L’infarto richiede un approccio anche di tipo organizzativo. Quando un paziente viene colpito da infarto dovrebbe subito essere ricoverato per essere sottoposto ad angioplastica nel più breve tempo possibile. I cardiologi si sono concentrati su molti aspetti come la soluzione del cosiddetto ‘ritardo evitabile’, con il coinvolgimento della Fondazione Per il Tuo Cuore e la promozione di campagne informative rivolte alla popolazione, che spiegano ai cittadini l’urgenza di recarsi al Pronto Soccorso nel caso si manifesti un dolore al petto per fare subito un elettrocardiogramma.

I cardiologi – aggiunge Colivicchi – hanno collaborato con le istituzioni per realizzare procedure e protocolli che consentissero di arrivare prima possibile alla sala operatoria per risolvere l’infarto nella fase più acuta. Dati di Agenas ci dicono che oggi l’Italia è ai primi posti a livello mondiale in termini di risultati di accesso rapido ed efficace alla procedura di angioplastica nell’infarto.

Nel tempo ci sono state moltissime iniziative volte a migliorare la qualità complessiva delle cure erogate a questi pazienti: studi osservazionali per capire come venivano curati, identificazione delle strategie più efficaci per usare al meglio le terapie, che grazie alla ricerca scientifica, diventano sempre più numerose e disponibili, sensibilizzazione dei cardiologi a rendere accessibili i nuovi farmaci. In questo senso, i cardiologi hanno lavorato molto con l’AIFA, l’ente che governa l’utilizzo dei farmaci in Italia nell’ambito del SSN. Il problema si presenta quando il paziente esce dall’ospedale”.

 ANMCO ha dato il via ad un progetto di Audit interno clinico, finalizzato a migliorare la qualità delle cure nei pazienti con IMA. Come è strutturato questo progetto, quali sono le principali finalità e come si è svolto il processo di Audit clinico?

“L’Audit è uno degli strumenti che fa parte del cosiddetto governo clinico, ovvero l’insieme delle procedure e delle iniziative che ci aiutano a migliorare le cure e la qualità delle prestazioni sanitarie, a livello sia della singola struttura che del Servizio sanitario complessivamente inteso.

L’Audit si affianca ad altre risorse del governo clinico – come attività di formazione o revisione critica delle procedure – e ha lo scopo di valutare dal punto di vista clinico l’operato dei sanitari su uno specifico problema, basandosi sulla valutazione tra pari.

Si prende in esame un problema specifico che viene analizzato e valutato, a questo segue un’analisi dettagliata degli eventuali elementi critici che incidono sul processo. Il percorso si conclude con una serie di proposte di miglioramento e un’analisi finale.

In questo caso ANMCO ha voluto capire come veniva utilizzata la terapia farmacologica dopo l’angioplastica in un paziente ricoverato per infarto. Grazie al contributo non condizionante di Amgen abbiamo coinvolto 50 ospedali e 500 cardiologi, fatto una prima analisi sui comportamenti in termini di prescrizioni e modalità di uso dei farmaci e abbiamo registrato una serie di indicatori che definissero la qualità e la correttezza di quello che veniva effettuato. Quindi, i report ottenuti sono stati restituiti ad ogni singolo centro.

L’osservazione è durata 4 settimane e, sulla base di tutte le informazioni, è partita un’attività di formazione, indicando i margini di miglioramento. A distanza di tempo è stata condotta una ulteriore valutazione. A conclusione di questo complesso lavoro tutti gli indicatori ci dicono che dopo questa fase di verifica, controllo e formazione degli operatori i pazienti vengono curati meglio”.

Quale è l’importanza di questa iniziativa? Può anticiparci le evidenze di maggior interesse emerse dall’Audit? Alla luce dei risultati, quali sono i principali indicatori sui quali i centri di cardiologia dovranno lavorare per migliorare complessivamente la gestione e la qualità delle cure dei pazienti con IMA, durante il ricovero e nel post infarto?

“L’attività che abbiamo portato avanti ha riguardato aspetti clinici ma anche organizzativi e di corretto impiego delle risorse disponibili. Il risultato è stato favorevole e mostra, soprattutto da parte delle cardiologie italiane, la volontà di impegnarsi nel miglioramento della qualità delle cure offerte ai pazienti.

Dall’indagine emergono informazioni di epidemiologia clinica rilevanti: i pazienti che giungono nei nostri centri presentano un carico pesante di fattori di rischio e di eventi ischemici cardiaci e questo significa che la loro condizione clinica precedente l’infarto non è stata gestita in modo adeguato. Sono pazienti con percentuali molto elevate di diabete, ipercolesterolemia e ipertensione.

“In secondo luogo, i pazienti sono trattati durante il ricovero ospedaliero in maniera estremamente impegnativa e attenta, la maggioranza viene sottoposta ad angioplastica, la quasi totalità esegue la coronarografia: questo significa che le strutture cardiologiche lavorano in modo efficiente ed efficace in termini di interventi terapeutici.

Terzo elemento, è cambiato completamente il modo di trattare alcuni aspetti fondamentali nella genesi e nella progressione della malattia vascolare aterosclerotica che porta all’infarto, in particolare l’ipercolesterolemia. Emerge che i cardiologi italiani impiegano una terapia di combinazione, mettendo insieme più farmaci per ridurre il colesterolo ‘cattivo’ LDL nei pazienti infartuati.

La terapia di combinazione è stata proposta solo di recente all’attenzione della comunità cardiologica internazionale: quindi il cambiamento nei comportamenti terapeutici dei cardiologi è stato molto rapido e si è ulteriormente amplificato a seguito delle verifiche condotte.

I cardiologi del servizio pubblico usano al meglio le risorse farmacologiche offerte dal SSN, ottenendo il massimo e in una percentuale di casi mai descritta finora nella letteratura scientifica internazionale. Le terapie innovative con farmaci biologici, come gli anticorpi monoclonali anti-PCSK9 per la cura dell’ipercolesterolemia, vengono utilizzate in misura maggiore rispetto al passato e proprio in quella fascia di pazienti più gravi in cui la probabilità di una recidiva dell’infarto è molto alta. Risultati, questi, – conclude Furio Colivicchi – di grande soddisfazione per la cardiologia italiana ospedaliera”.

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