Le novità della Settimana Mondiale del Cervello 2017
«Attraverso il tema di questa edizione Curare il cervello migliora la vita – afferma il professor Leandro Provinciali, Presidente SIN – intendiamo mettere al centro della Settimana la neurologia e le malattie di cui si occupa, nelle varie espressioni cliniche, e l’esigenza di risposte più adeguate ai crescenti bisogni di cura. Riteniamo, infatti, che la neurologia abbia ancora un ruolo sottostimato nel nostro Paese, con un conseguente svantaggio per i pazienti che nel 60% dei casi non si rivolgono al neurologo per le patologie competenti, ritardando così la corretta diagnosi. In molte patologie del Sistema Nervoso Centrale e Periferico, la diagnosi precoce permette una strategia terapeutica in grado di tenere sotto controllo i sintomi e modificare, quindi, la progressione della malattia. In altri casi, come l’Ictus, l’intervento tempestivo e qualificato dei centri dedicati al manifestarsi dei primi sintomi consente di ridurre e, talora, annullare i gravi danni che la patologia potrebbe provocare, con un conseguente beneficio per la qualità di vita dei malati».
FINALMENTE IN CALO I CASI DI ICTUS
«Dati recenti sulla popolazione italiana – spiega il professor Elio Agostoni, Direttore Dipartimento di Neuroscienze, Direttore S.C. Neurologia e Stroke Unit – ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano – indicano che negli ultimi vent’anni l’incidenza di primi episodi di ictus è diminuita del 29%, sia per ictus ischemici sia per ictus emorragici. Tale riduzione è stata osservata nonostante un indice di invecchiamento della popolazione con età superiore ai 75 anni pari al 33%. La riduzione dell’incidenza interessa in particolare gli ictus disabilitanti e fatali. Oggi sono 930.000 coloro che riportano effetti invalidanti a causa di questa patologia e 120.000 i nuovi casi ogni anno
È plausibile attribuire questa riduzione all’aumento e al miglioramento delle strategie preventive, a un miglior controllo dei fattori di rischio vascolare e al ruolo della chirurgia vascolare, anche per il considerevole numero di interventi chirurgici eseguiti per stenosi della carotide (dal 17,2% è passata al 17,8%)».
IL CERVELLO GIOVANE E VULNERABILE
«Sono molte le malattie neurologiche – dice il professore Gianluigi Mancardi, Direttore della Clinica Neurologica dell’Università di Genova – che possono avere il loro esordio in età giovanile: alcune malattie muscolari, malattie infettive e infiammatorie, i traumi, alcuni tumori, l’epilessia, le cefalee, malattie degenerative o immunomediate del sistema nervoso periferico, malattie metaboliche e malattie autoimmuni come la sclerosi multipla. Per molte di queste malattie esistono cure specifiche e attive e pertanto è necessaria una diagnosi precisa, dettagliata e precoce.
L’impatto di tutti i traumi sul cervello giovane. Gli esiti del trauma dipendono certamente dalla gravità dello stesso e dalla entità ed estensione delle lesioni nervose, ma si è visto che traumi anche relativamente lievi sono in grado di causare un danno diffuso a livello del sistema nervoso centrale, che può manifestarsi successivamente con disturbi cognitivi di una certa rilevanza.
Il giovane ha certamente maggiori capacità di recupero rispetto a un adulto o un anziano: studi scientifici che hanno valutato l’outcome dopo traumi cranici (Andruszkow et al., Health and Quality of life Outcomes, 2014) hanno dimostrato che, se il trauma avviene in età prescolare, migliore è il recupero rispetto a soggetti in età scolare o adulti.
L’impatto delle droghe sul cervello dei giovani. Nella età giovanile e adolescenziale le sostanze di cui si fa più abuso e che causano un effetto dannoso sul sistema nervoso sono principalmente l’alcool e la marijuana. Meno utilizzate, ma particolarmente lesive sono altre sostanze, come gli allucinogeni, l’ectasy o la cocaina.
Numerosi studi hanno valutato l’effetto a distanza di alcool e marijuana, utilizzando tecniche neuropsicologiche ed anche esami come la Risonanza Magnetica (RM) che hanno valutato il danno funzionale e strutturale del sistema nervoso.
È stato dimostrato (Lindsay et al Curr Psychiatry Rep, 2016) che il cronico abuso di tali sostanze determina un calo della memoria verbale, delle funzioni visuo-spaziali, della memoria di lavoro, dell’attenzione e della concentrazione, con un conseguente abbassamento globale delle funzioni cognitive».
MIGLIORARE LA QUALITÀ DELLA VITA DEI PAZIENTI CON DISTURBI DEL MOVIMENTO
Nuove frontiere terapeutiche
«Recentemente è entrata nella pratica clinica – spiega il professor Leonardo Lopiano, Professore Ordinario di Neurologia, Università di Torino e Direttore SC Neurologia 2U, A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino – un’importante terapia interventistica per i pazienti parkinsoniani in fase avanzata, ovvero l’infusione intestinale continua di levodopa. Tramite una gastro-digiunostomia percutanea viene posizionato un catetere all’interno dell’intestino attraverso il quale un device esterno infonde un gel contenente levodopa. Questa ulteriore innovazione ha permesso di migliorare la qualità di vita dei pazienti, ottimizzando la somministrazione del farmaco e migliorando il controllo dei sintomi motori e delle fluttuazioni motorie.
Allo stesso tempo sono già in uso oppure sono imminenti nuovi farmaci: inibitori enzimatici in grado aumentare la concentrazione di dopamina nel sistema nervoso centrale, nuove formulazioni di levodopa (via inalatoria, sottocutanea) e farmaci per il trattamento dell’ipercinesia. Grande speranza viene riposta nei farmaci neuroprotettivi soprattutto se somministrati nelle fasi precoci di malattia.
L’importanza della riabilitazione
Nel trattamento dei disturbi del movimento, un settore che ha assunto un ruolo rilevante negli ultimi anni e che conta 200.000 persone solo per morbo di Parkinson, è quello della neuroriabilitazione. Numerosi studi hanno messo in evidenza un miglioramento dei sintomi motori e della qualità di vita in seguito a trattamenti riabilitativi specifici. La riabilitazione è in grado di ottimizzare le capacità motorie residue dell’individuo, con un approccio volto ad affrontare non il singolo sintomo, ma la disabilità nel suo insieme. Si tratta di trattamenti complementari alla terapia farmacologica e chirurgica e spesso agiscono positivamente su sintomi che non sono migliorati dai farmaci. La riabilitazione è in grado di ottimizzare l’indipendenza funzionale del paziente migliorando la sua qualità della vita».
LA BATTAGLIA CONTRO LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE CONTA SU ARMI NUOVE
«A causa dell’invecchiamento della popolazione, stiamo assistendo – sottolinea il professor Carlo Ferrarese, Direttore Scientifico del Centro di Neuroscienze di Milano dell’Università di Milano-Bicocca e Direttore della Clinica Neurologica dell’Ospedale San Gerardo di Monza – a una epidemia silenziosa che coinvolge il nostro Paese: circa 1.000.000 sono i pazienti con demenza, di cui la maggior parte colpiti da malattia di Alzheimer.
La diagnosi precoce è indispensabile per poter indirizzare il paziente con Malattia di Alzheimer verso strategie terapeutiche, attualmente in fase avanzata di sperimentazione, che potrebbero modificare il decorso della malattia mediante la rimozione della proteina beta-amiloide.
Tali strategie sono basate su molecole che determinano una riduzione della produzione di beta-amiloide, con farmaci che bloccano gli enzimi che la producono (beta-secretasi) o, in alternativa, anticorpi capaci addirittura di determinare la progressiva scomparsa di beta-amiloide già presente nel tessuto cerebrale. Questi anticorpi, prodotti in laboratorio e somministrati sottocute o endovena, sono in grado in parte di penetrare nel cervello e rimuovere la proteina, in parte di facilitare il passaggio della proteina dal cervello al sangue e la sua successiva eliminazione.
Recenti tentavi terapeutici con questi farmaci nelle fasi anche iniziali di demenza si sono rivelati fallimentari, per cui ora queste terapie sono in fase avanzata di sperimentazione nelle forme prodromiche quali il Mild Cognitive Impairment o addirittura in soggetti normali che risultano positivi ai test per l’accumulo di beta amiloide (PET o esame del liquor cerebro-spinale). La speranza è che queste nuove strategie possano modificare il decorso della malattia, prevenendone l’esordio».
NON TUTTI I SONNI SONO BUONI
«Studi longitudinali hanno evidenziato che alcuni disturbi del sonno sono da considerare marker predittivi del possibile sviluppo di una patologia neurodegenerativa.
Ci sono dati relativi alla eccessiva sonnolenza diurna che può manifestarsi alcuni anni prima della comparsa di una malattia di Parkinson. Un recentissimo studio condotto su 2457 soggetti, di età media di 72 anni, seguiti per oltre 10 anni, ha evidenziato che una durata del sonno notturno superiore a nove ore è associata a un rischio maggiore di sviluppare una qualsiasi forma di demenza.
Un sonno disturbato è spesso presente nelle patologie neurologiche: ad esempio nel 70-90% dei pazienti con malattia di Parkinson, nell’80-90% dei pazienti con malattia di Alzheimer, nel 50-60% dei pazienti con sclerosi multipla. Il problema del sonno può essere legato alla patologia neurologica di per sé, al suo aggravamento o, a volte, anche alle terapie farmacologiche.
Un esempio è la sindrome delle apnee notturne, che si osserva in oltre il 50% dei pazienti con ictus cerebrale.
L’identificazione e il trattamento dello specifico disturbo del sonno comporta non solo un miglioramento della qualità della vita, ma, nel caso ad esempio dei pazienti con ictus, anche un migliore esito a breve e a lungo termine. Alcuni autori hanno anche evidenziato che, in pazienti con Alzheimer, il trattamento di una concomitante sindrome delle apnee ostruttive con l’apparecchio a pressione positiva d’aria (CPAP), può rallentare la progressione del deficit cognitivo».
Ma può un sonno di buona quantità e qualità ridurre il rischio di malattie neurologiche?
«Studi condotti in modelli animali hanno evidenziato che la privazione di sonno accelera l’aggregazione di β-amiloide (una proteina normalmente prodotta ma anche eliminata nel cervello sano) in placche extracellulari, che sono caratteristiche della malattia di Alzheimer.
Dormire bene, curando anche eventuali disturbi del sonno, rappresenta un obiettivo importante nell’ambito di possibili strategie preventive per le malattie neurodegenerative».